BIOGRAFIA

MARIO RICCI – Un teatro povero e rivoluzionario[1]

Agli inizi degli anni 60 Carmelo Bene, Carlo Quartucci, Mario Ricci e Leo de Berardinis avviano percorsi teatrali paralleli che definiranno il Nuovo Teatro italiano a venire. Laddove Bene e Quartucci lavorano applicando metodologie ancora legate al testo, Mario Ricci, con i primi spettacoli astratti di marionette, apre verso un teatro assolutamente altro, affidato all’idea craighiana[2] della scena come scrittura (Gordon Craig – La supermarionetta); un’idea distante dal patrimonio della cultura teatrale italiana”[3]. Mario Ricci arriva a questo punto di non ritorno dopo aver giocato con la poesia, la pittura, le marionette, l’arredo di interni, le cornici, e dopo aver passato due anni a Parigi con il suo amico di sempre, l’artista Pasquale Santoro[4].

“Quando mi sono recato per la prima volta a Parigi (1959 ndr) ero poco più di un turista. L’anno successivo m’installavo in casa di un amico pittore (Jean Claude Vignes[5], vicino agli Champs-Élysées, ndr). Questo non perché fossi colto da improvviso amore per questa città, che pure amo e ho amato, ma semplicemente perché la Roma di allora mi sembrava davvero troppo piccola. In quello stesso periodo i miei rapporti con il teatro erano, pressappoco, quelli di un comune spettatore. A Stoccolma, al Marionetteatern di Michael Meschke[6], ci sono andato più per bisogno che per convinzione. A quel tempo, infatti, mi autodefinivo pittore e per vivere a Parigi, facevo il corniciaio. Incontrato Meschke in casa di amici comuni, accettai con entusiasmo l’invito di andare a lavorare nel suo teatro di marionette; ciò significava finirla con le cornici e con la pittura. La prima volta sono rimasto a Stoccolma circa otto mesi (tra il 1961 e il 1962, ndr) ed ho imparato quel tanto che si può imparare, manipolando marionette e burattini: esperienza di grande interesse oltre che affascinante”[7]. Così ricorda Ricci:

“In quel periodo ho assistito a uno spettacolo di Teatro Meccanico di Harry Kramer. Kramer era uno scultore cinetico che con materiali a lui del tutto naturali e confacenti alla sua personalità d’artista aveva costruito uno spettacolo di un’ora diviso in brevi pezzi di dodici minuti circa[8]. Di questi l’ultimo è stato indubbiamente quello che mi ha impressionato perché […] formalmente si realizzava usando solo il movimento delle sue macchine-sculture, senza ricorrere alle marionette, che in tutti gli altri pezzi dello spettacolo creavano invece delle misure e scontata comunicazione a tutti i livelli ”[9]. Mario Ricci tornerà a rivedere tutte le repliche dello spettacolo.

Ritornato a Roma Ricci esordisce, all’età di trent’ anni, in casa del critico d’arte Nello Ponente[10] nella notte di Capodanno del 1962/63. Nello spettacolo, Movimento numero uno per marionetta sola, Ricci si serve proprio della marionetta realizzata durante il suo soggiorno presso il teatro di Meschke. Accanto ai movimenti della marionetta, un testo registrato è interpretato dal primo ‘mezzo-busto’ della RAI-TV (Riccardo Paladini) il quale –ricorda Ricci – “lo ha letto con i toni e i tempi con i quali ogni sera ‘recitava’ il telegiornale”.

 


La marionetta realizzata per Movimento  per Marionetta Sola, in piedi su un quadro di Nini’ Santoro.

Lo Spettacolo verra’ replicato nel piccolissimo appartamento di Ricci in Via Labicana durante il 1963, che però si rivela un anno molto difficile per Ricci. Finalmente il 1964 permette a Ricci di passare da una casa privata ad una galleria d’arte, la Arco D’Alibert di Roma, quasi a indicare una direzione di ricerca rivolta al lavoro di gruppo e alle arti visive. I primi spettacoli sono realizzati in collaborazione con Ninì Santoro, Nato Frascà[11], Remo Remotti[12], artisti contemporanei e amici di lunga data, e con la compagna Gabriella Toppani. Esplicito è in questi primi lavori il riferimento all’esperienza del Bauhaus, in particolare a Oskar Schlemmer[13] che è il primo, negli anni 1924-26 a sperimentare il rapporto strutturale ed espressivo tra forme cromatiche, plastiche e architettoniche.

“Nel Gennaio 1964 la signora Mara Coccia mi propone di allestire e rappresentare nella sua Galleria D’Arte uno spettacolo contemporaneamente ad una mostra di marionette, mettendomi a disposizione la stratosferica somma di lire 50.000. Naturalmente accetto con grande entusiasmo.Le marionette create ed esposte saranno circa una ventina e lo spettacolo una produzione di circa settanta minuti formata da circa cinque o sei ‘pezzi’ dei quali ne ricordo più di tutti uno: ‘TUBI’[…] un misto di ‘pezzi’ realizzati con marionette e ‘objets-trouvé’.
‘TUBI’ era dunque fatto a partire dai più comuni tubi da due pollici e mezzo a quelli viva via sempre più grandi più fino a tubi per la stufa, compresi due gomitoni da circa 30cm. di diametro. Raccontare cosa facevo con tubi e tuboni mi è assolutamente impossibile. La sola cosa che ricordo è il balletto dei tubi.”

Il 23 dicembre 1964 Ricci apre finalmente un suo spazio teatrale, il teatro-club Orsoline 15 in Vicolo delle Orsoline, una traversa di Via della Croce in una zona di Roma particolarmente frequentata dagli esponenti delle avanguardie artistiche e letterarie negli anni Sessanta: “quel triangolo magico – Via di Ripetta, Piazza del Popolo, Via del Corso – del centro storico che fu il nostro quartiere latino ben prima e più di Trastevere e Campo de’ Fiori [14]. Nasce così uno dei primi teatri-cantina, in “una sala di 8 metri per 4 divisa a metà da un arco che funge da boccascena: da una parte un angusto palcoscenico 4×4, dall’altra una platea capace di 20, massimo 30 spettatori. Parte in piedi parte seduti su panche rudimentali [15].

Il piccolo teatro è inaugurato con Movimento per marionetta sola N.2, realizzato in collaborazione con Gastone Novelli[16] e con Movimento 1 e 2. La stampa dopo quella serata parla di un teatro “avveniristico [e] riservato agli adulti” [17].

In questo luogo Ricci continua la sua attività fino al 1967 attraverso “esperimenti di una assoluta arditezza figurativa, primi accenni di quel modo di fare teatro che da parte della critica sarebbe stato individuato come Teatro Immagine [18].

 
Mario Ricci e Gastone Novelli, Prove spettacolo, Teatro Orsoline 15 – Foto: Riccardo Orsini.

Per Ricci l’apertura del Teatro Club Orsoline 15 segna l’anno di nascita della sperimentazione teatrale italiana. Il regista non negava quanto fatto in precedenza, ma riteneva che si trattasse – parole sue – di “fatti isolati, consumati in genere in luoghi forzatamente occasionali. Da allora invece cambiò il modo di intendere l’azione teatrale”[19]. Fu dall’apertura del club Orsoline 15 che cambiò, nei fatti, il modo di intendere l’azione teatrale. La cantina “diventa il luogo di fondazione di un sistema teatrale alternativo, definendo al suo interno una nuova concezione dello spazio, del linguaggio e del pubblico”[20].

Le Orsoline 15 diventano sede di un nuovo modo di fare teatro e, attraverso il laboratorio, nel 1965 vengono messi in scena una serie di progetti collaborativi. In ordine cronologico, A di Gianni Novak[21], musica e suoni Mario Ricci; Pelle d’asino di Pagliarini e Giuliani del Gruppo ‘63 [22], marionette, luci, suoni, regia di Mario Ricci; Balletto 2, materiale scenico dello scultore Libertucci, marionette di Gabriella Toppani (sua moglie e collaboratrice di tutta la prima fase creativa e lavorativa del regista romano), regia, luci e suoni Mario Ricci e Flash Fiction di Mario Ricci, che rappresenta il momento più estremo della stagione. Lo spettacolo era affidato formalmente solo a una serie di suoni/rumori e materia senza marionetta alcuna : “La storia di un lancio verso un pianeta, con rumori derivanti da chiodi che scivolano in secchi rumorosi ai piedi della ribalta. Un conteggio alla rovescia per un mezzo che invece di andare sulla luna ci porta sotto la linea magica del teatro; forse un anti-spazialismo, un viaggio al centro della terra” [23] seguito nella stessa serata da Por no di Achille Perilli e Carlo Vitali[24]: “un’ironica biologia elementare, per le luci i colori, le forme che compongono sempre quadri di una fantasia incontrollabile e che hanno anche il merito di ritenere nel nulla, come un sogno”[25].

Gabriella Toppani, laboratorio Teatro Orsoline 15 – Foto: Riccardo Orsini. 

Chiude la stagione Varietà, che vede per la prima volta la presenza in scena di “tre interpreti, diciamo così, in carne ed ossa. Prova evidente – afferma Ricci – dell’evoluzione del mio Teatro Immagine”. Tra gli interpreti Claudio Previtera che sarà poi presente al fianco di Mario Ricci per tutta la stagione del Teatro Immagine. In questo periodo la figura umana viene sempre maggiormente dimensionata come oggetto, diventando un vero e proprio elemento della scrittura scenica. Così Ricci spiega la novità che tale scelta rappresentava nella sua ricerca: “l’inserimento

(fine ’65, inizio ’66) di questa nuova figura, che doveva sostituire l’ipotesi della Supermarionetta a suo modo astratta, in quanto mai realizzata e sperimentata dal suo autore, mi permise allora di moltiplicare, significativamente, proprio quel ‘movimento’ concepito da Craig quale elemento rivoluzionario per un nuovo teatro”[26]. Per arrivare a un vero e proprio attore-oggetto, Ricci fa ricorso a due elementi fondamentali, la ritualità e il gioco[27]. Nel 1966 Mario Ricci mette in scena Salomè, Sacrificio Edilizio e riporta in scena Varietà.

 

Varietà, Roberto Ricci e Claudio Previtera – Foto: Riccardo Orsini. 

 

Salomè – Foto: Riccardo Orsini.

Salomè è il primo spettacolo in cui è diretto il riferimento a una narrativa preesistente. Ad alcuni critici sembra un tradimento del rigore iconoclasta fino a quel momento apprezzato negli spettacoli. Il testo con voce narrante registrata è tratto dalla Salomè di Oscar Wilde, dai Vangeli, dal racconto di Gustave Flaubert Erodiade e dal Cantico dei Cantici. Claudio Previtera realizza le marionette e l’impianto scenico ispirandosi alle illustrazioni della Salomè di Aubrey Beardsley.

Ricci usa la tecnica del testo-collage anche in Sacrificio Edilizio, spettacolo in cui l’attore diventa strumento, dato tecnico, utensile: “è un dato tecnico come la luce, la voce fuori campo, la scenografia, non autosignifica altro che il suo essere un dato tecnico …una struttura che serve a fare teatro”[28].

Lo spettacolo racconta in maniera evocativa una tradizione balcanica secondo cui per costruire un ponte o un qualsiasi edificio e affinché questo regga, bisogna murare una vergine nelle sue fondamenta.

In questo periodo da sporadiche collaborazioni con amici, familiari e conoscenti, M. Ricci avvia la creazione di un gruppo più stabile che parteciperà a tutta la fase del Teatro Immagine: tra loro soprattutto Claudio Previtera, Deborah Hayes, Angela Diana e come tecnico suono-luci Luigi Perrone il quale successivamente ha partecipato anche come attore in alcuni spettacoli.

Con gli spettacoli di questo periodo (Varietà, Salomè e Sacrificio Edilizio) Ricci per la prima volta esce dalla dimensione locale e periferica per entrare nei circuiti del teatro ufficiale. Dopo l’esordio alle Orsoline 15 gli spettacoli vengono rappresentati al Teatro Regio, nel contesto del Festival Universitario di Parma.

Ricci nota a proposito che “lo spettacolo non ci perdeva affatto. Anzi. Specialmente Salomè, sistemato da macchinisti geniali al centro dell’immenso boccascena, sembrava fosse un francobollo in bianco e nero all’interno del quale si muovevano i personaggi d’un remoto dramma”. All’epoca Giuseppe Bartolucci ne parla come dello spettacolo più continuo e sperimentale di quanti si siano visti a questo Festival.

Ricci con questa prima uscita da Roma solidifica la sua posizione come artista di punta dell’avanguardia ‘romana’, e consolida il Teatro-club Orsoline 15 come un punto di riferimento del Nuovo Teatro e di una nuova scrittura scenica che diventerà riferimento per le generazioni a venire.

In sintonia con questa continua ricerca nel dicembre del 1966 Ricci mette in scena I Viaggi Di Gulliver, spettacolo composto di quattro ‘azioni’ con cui “immette nel linguaggio teatrale nuovi strumenti della comunicazione visiva, quali il cinema e la fotografia. Da questo momento in poi la presenza dell’attore viene sfruttata in tutte le sue potenzialità cinetiche e gestuali diventando un elemento essenziale dell’azione, che non è più affidata al solo dinamismo degli oggetti e degli altri materiali scenici[29].

Riguardo all’utilizzo del film nello spettacolo, commenta Ricci: “Sono stato il primo in assoluto a farlo, almeno in Italia. In Europa lo avevano già fatto Appia e Brecht ma, mentre loro proiettavano su uno schermo, io proiettavo sulle persone, creando la quarta dimensione. Nel 1962 avevo visto a Praga La lanterna Magica[30], dove per la prima volta avevo notato l’uso del film in uno spettacolo teatrale. Ho sfruttato quella lezione più tardi, ma non ho mai usato le immagini a scopo didascalico né estetico[31] 

I Viaggi di Gulliver, Claudio Previtera, Teatro Orsoline 15- Foto: Riccardo Orsini.

Con i Viaggi di Gulliver il percorso formativo del Teatro Immagine è completo. “Bisogna intendere lo spettacolo soprattutto come un recupero immaginativo-visivo di alcune parti e di alcuni elementi dei famosi Viaggi di Gulliver e meno come un riscontro intellettuale della scrittura del testo di Swift”[32]. “In Gulliver c’erano delle scene di grandissima poesia. Era come un gioco di bambini”. [33]

Così ricorda lo spettacolo Franco Cordelli: “c’era un pannello lungo tre metri e alto uno e dieci, su cui era dipinto un Gulliver steso su un fianco. A un certo punto arrivavano tre lillipuziane, che gli aprivano lo sportello. Si apriva anche una tasca da cui uscivano i suoi strumenti: il pettine, la chiave, le grandi forbici. Venivano attaccate al soffitto e diventavano una specie di bosco. Così Ricci comincia il racconto. Era un teatro senza effetti speciali. Era un teatro povero e rivoluzionario. [34]

Lo spettacolo, nonostante la buona accoglienza ricevuta dalla critica romana, apre la stagione della difficile relazione tra Ricci e i critici italiani. A Genova esordisce in una mini tournée ricevendo però pessime recensioni mentre a Torino viene accolto freddamente. I Viaggi di Gulliver segnalano Ricci ad una critica internazionale e nello stesso anno «The International Times», pubblicazione storica dell’underground londinese, dedica un articolo al Gulliver lodandone le qualità innovative.

“Era il 1967 – racconta Ricci – ed ero giunto più o meno a metà del mio percorso. (…) Il mio lavoro nelle avanguardie si pone in quello spazio che definirei tecnico, quindi non contenutistico, perché l’originalità della mia operazione era che io puntavo su una rifondazione della parte tecnica teatrale, soprattutto trasformandola in modo determinante e definitivo. Non agivo sui contenuti e sulla poetica, centrali in tutta l’avanguardia, ma puntavo ad un rinnovamento della forma”[35]

A I Viaggi di Gulliver segue Edgar Allan Poe. Lo spettacolo introduce un ulteriore avanzamento nella ricerca formale, la scena diventa più complessa, meccanizzata, i film non sono più di repertorio ma girati espressamente per lo spettacolo, al cui interno “non un solo gesto, non uno degli oggetti indispensabili all’avventura che prende vita in scena è gratuito. [36] La capacità di Ricci di fare del film un ingrediente teatrale è secondo la critica senza precedenti. [37]

L’autore americano non figura come personaggio né tantomeno Ricci costruisce una trama a partire dai suoi racconti. È invece lo spirito della sua opera a cui Ricci fa riferimento per costruire tutta l’azione scenica e visiva che deve “creare stati di pathos di diversa natura”[38].

Edgar Allan Poe, la prima incarnazione del Gruppo Orsoline 15. Teatro Orsoline 15- Foto: Riccardo Orsini.

 “Ricordo un altro momento del Poe che ho amato moltissimo: quattro attori si sedevano sul palcoscenico e cominciavano a dirsi cose incomprensibili molto lentamente. Nel giro di poco tempo arrivavano ad urlare paurosamente, creando molta tensione, specialmente in uno spazio piccolo come quello delle ‘Orsoline’. La gente entrava veramente dentro lo spettacolo”. [39]

Lo spettacolo debutta alle Orsoline 15 nell’Aprile 1967 per poi spostarsi prima al Teatro Carignano di Torino, poi a Nancy, a Monaco di Baviera e in Polonia.

“In Polonia [all’epoca parte del blocco Sovietico e paese fortemente sotto il controllo dei servizi segreti -ndr] nessuno si è mai veramente interessato di noi, dandoci così agio di spostarci in lungo e largo, senza limiti e senza controlli. Ancora oggi non ho capito come e perché abbiamo potuto vivere quella singolare avventura. Ci fu data la possibilità, a noi – «cani sciolti» – se così’ posso dire, di entrare in case «private», discorrere e parlare di cose «private» strettamente legate alla vita d’ogni giorno che certamente ad altri, occidentali come noi, erano negate. Di teatro sperimentale non si parlò quasi mai […] Né il nostro spettacolo, Edgar Allan Poe, con tutte la sua singolarità, suscitò l’interesse che ci si sarebbe aspettato […] Evidentemente l’avanguardia, il teatro di sperimentazione non erano gli argomenti che stavano più a cuore in quel momento […] D’altronde è difficile immaginare movimenti d’avanguardia artistica, se non clandestina, in paesi sottoposti a dittature, o a qualsiasi forma di dispotismo”.

Il Poe chiude la stagione del teatro Orsoline 15, abbandonato con affitti arretrati non prima però di aver ospitato alla fine del 1967 il debutto de La faticosa messinscena dell’Amleto di William Shakespeare di Leo de Berardinis e Perla Peragallo[40 che riceverà poi la sua consacrazione al Convegno di Ivrea”.

Nel 1967 Ricci approda alla Ringhiera di Roma, un piccolo nuovo teatro in cui per un brevissimo periodo divide la programmazione con Leo De Berardinis.

Alla Ringhiera Ricci ripropone Edgar Allan Poe insieme a un nuovo spettacolo: Illuminazione, realizzato in collaborazione con Umberto Bignardi [41] che si occupa dell’impianto scenico. “A differenza di tutti gli altri miei lavori (che duravano circa un’ora) questo durava mezz’ora e ne ho fatto pochissime repliche: una alla Ringhiera, (alla presenza di Moravia che non voleva pagare il biglietto), un’altra al Teatro Carignano di Torino e l’ultima nel giugno dello stesso 1968 al Teatro Kammerspiele di Monaco di Baviera, nel quadro della Rassegna Verkaumertheater. Illuminazione è stato il mio spettacolo più complesso nel rapporto col cinema, avendo utilizzato addirittura tre proiettori e facendo rimbalzare le immagini sulla platea attraverso degli specchi allestiti sul palcoscenico”.

Illuminazione, prove, Mario Ricci e sullo sfondo il Gruppo Orsoline 15. Teatro La Ringhiera – Foto: Riccardo Orsini.

Il fatto di cambiare spazio era funzionale a un tipo di struttura che nell’intenzione di regista e scenografo doveva distruggere l’impatto visivo di un teatro a scatola ottica “provocando situazioni visive centrifughe”[42]. Ricci racconta che messo in scena a Torino fu una meraviglia proprio perché in un teatro come il Carignano “le immagini riflesse invadevano la sala, i palchi e la piccionaia. Gli spettatori, molti dei quali giovani, si stupirono per le immagini riflesse dagli specchi sui loro vestiti. Tutto finiva per confondersi in un unico rigoglio di immagini in bianco e nero. Purtroppo, poco dopo l’allestimento di Illuminazione, De Bernardinis e Molè (proprietario della Ringhiera) litigarono ed io persi il mio laboratorio” [43]

Illuminazione – Foto: sconosciuto.

Nel marzo 1967 un nuovo stimolo arriva dall’invito a partecipare al Festival Mondial du Théâtre di Nancy, diretto da Jack Lang, futuro ministro della Cultura del governo Mitterand.

Ricci risponde che sarebbe felicissimo di partecipare, ma che l’impossibilità di sostenere spese di trasporto troppo gravose rende impraticabile presentare Illuminazione. La partecipazione al Festival è così ricordata dal regista soprattutto per il teatro che lui e il suo gruppo poterono vedere in quell’occasione:

 

“Il primo spettacolo al quale assistemmo era un lavoro del Gruppo americano Mineapolis Fire House ed era la rappresentazione d’un testo del newyorkese Jean-Claude Van Itallie. Si trattava di un’ironica, a volte sferzante rappresentazione d’un party di compleanno di una delle interpreti. Che era una cicciona bruttina bravissima ed aveva come amica uno splendore di ragazza, anch’essa bravissima. La cosa straordinaria, la grandezza che si può raggiungere in teatro anche con mezzi, come dire, a portata di mano, non ha limiti. Certo, va da sé: ci vuole talento. Questo spettacolo del Fire House ne era una dimostrazione lampante. Pensate: tutti gli attori e le attrici, oltre ad essere bravissimi come quasi sempre lo sono tutti gli americani, suonavano brillantemente un diverso strumento per cui erano tutti, al tempo stesso, invitati al party e intrattenitori del party, come d’altronde noi spettatori, assiepati lungo le mura della lunga galleria che fungeva da teatro, eravamo al tempo stesso spettatori e invitati allo stesso party. L’altro spettacolo che più mi coinvolse, e convinse, fu quello rappresentato dal Gruppo newyorkese Bread And Puppet. Quanto quello del Fire House era spassoso, caustico-ironico, tanto questo era invece mistico, se così posso dire. Più che su di un testo lo spettacolo del Bread And Pupett prendeva pretesto da orribili avvenimenti realmente accaduti in Vietnam in quei giorni funesti. Ricorderò fra tutte una sequenza la cui semplicità d’esecuzione, relativamente ad un avvenimento di forte spessore drammatico, rappresentò per me il massimo di una spettacolarità che sino ad allora mai mi era stato dato vedere. Gli attori in scena, durante tutta la rappresentazione, avevano il volto nascosto da una maschera bianca di stessa sembianza ed erano tutti vestiti da una stessa lunga tunica bianca.

La scena di cui parlo rappresentava il suicidio ‘pubblico’ delle suore cattoliche in quella fase della guerra in quel lontano paese orientale. Accompagnate dalla lenta, cantilenante musica orientale queste suore, inginocchiandosi si disponevano in punti diversi della scena quindi, mimando lo spargimento della benzina sul proprio corpo, si davano fuoco e il fuoco era …le suore, una ad una estraevano da una tasca della bianca tunica un rotolino di rosso scotch quindi, strappatone una, due, tre, quattro, cinque…volte una lunga striscia se l’applicavano sulla bianca tunica, convincendoci che quelle rosse strisce non erano altro che lingue di fuoco. Quello che però era più raggelante e convincente in quella lunga sequenza era il crash provocato dallo svolgersi delle strisce, prima di essere strappate. Una scena che più ‘minimale’ sarebbe inimmaginabile. E però quanta efficacia, quanto realismo, quanto orrore sapevano esprimere quei semplici gesti!”.

Tornato dal festival Ricci si mette al lavoro su un nuovo progetto.

A dicembre del 1968 presso l’Unione Culturale di Torino nel Teatro Sala Infernotti debutta il James Joyce, uno degli spettacoli chiave della drammaturgia di Ricci, costruito in una stanza della sede del PSI (Partito Socialista Italiano) in via Ostiense a Roma.

James Joyce è frutto della mia libera interpretazione della prosa dell’ autore irlandese, incentrato sulla passeggiata di Bloom per le vie della vecchia Dublino.

Prima di andare in scena non ho mai visto il mio lavoro in un vero teatro, ma nonostante questo il Joyce è stato lo spettacolo che ci ha fatto definitivamente conoscere in Europa”.

ToninoCampanelli, Mario Romano. Teatro Abaco, James Joyce – Foto :Luigi Perrone.

Anche per questo spettacolo M. Ricci si avvale della cooperazione di Bignardi e di tutto il gruppo di collaboratori a cui nel frattempo si sono uniti anche Carlo Montesi, Mario Romano e Tonino Campanelli come partecipante esterno.

La rivista «Sipario» accoglie lo spettacolo con grande entusiasmo: “Che il discorso portato avanti da Mario Ricci sia estremamente importante nella definizione di un teatro vivo, contemporaneo, capace di imprevedibili sbocchi e sorprese (contro un teatro morto, ottocentesco, appena formalmente rinnovato), che lo sia, beninteso a livello internazionale, è cosa che conviene ancora segnalare ma, è già stato detto. Meno mi pare sia sottolineata la sua posizione originalissima, la sua freschezza straordinaria di invenzione“.[44]

A Febbraio del 1969 Ricci apre il Teatro Abaco, in uno scantinato di Lungotevere dei Mellini, non lontano dalla sua prima cantina Orsoline 15, ma con spazi più generosi e ormai con un gruppo di collaboratori ben consolidati. La scelta del nome non è né mistica né intellettuale. Il teatro fu chiamato così solo per poter apparire primo nei tamburini di giornali e riviste.

 

Oltre alla sala e al palcoscenico, “vi sono poi altri tre vani. Uno che pomposamente chiamiamo foyer, un altro che di sera fungerà da camerino e di giorno da ufficio ed il terzo: un vero bagno con tanto di doccia!”.

James Joyce, Teatro Abaco – Foto: Luigi Perrone.

 

Il Teatro Abaco, che il critico de “La Stampa” Blandi un paio di anni dopo definirà il tempio della sperimentazione romana, apre con la replica dello spettacolo James Joyce. Il Joyce a Roma consolida la posizione di Ricci come l’esponente di punta della ricerca teatrale italiana e lo spettacolo verrà poi replicato a Modena, Bologna, Chianciano Terme e “soprattutto a Francoforte in occasione del Festival Experimenta 3 ottenendo un tale riconoscimento da aprirci definitivamente le porte d’Europa”. La critica tedesca parla di “dimensione nuova per il teatro (Gießener Allgemeine, 4 Giugno 1969); “sintesi artistica ed espressiva emozionante e che scuote… invito al neoumanesimo…(Saarbrucker Zeitung, 4 giugno); gioco per bambini ma con tutti gli ingredienti più significativi dell’arte moderna: espressionistica, pop, surreale (Darmstadter Echo, 4 giugno 1969). “Il migliore e il più interessante spettacolo sperimentale di questa stagione (Frankfurter Allgemeine, 3 Giugno 1969).

A fine anno, dopo una febbrile stagione, Ricci porta in scena Il Barone di Munchhausen, spettacolo che egli stesso definisce “di passaggio con delle cose carine dentro”[45].

Lo spettacolo espande l’uso della colonna sonora, aspetto molto importante della drammaturgia di Ricci e generalmente poco notato dalla critica. “Per il sonoro avevo fatto una registrazione da Cecco, una trattoria romanesca che stava vicino al Campidoglio. Era un posto incredibile, pieno di romani che mangiavano, un locale frequentato da magnaccia, ladri, ed operai. Una sera abbiamo cenato lì a microfono acceso ed abbiamo fatto giocare con noi questi romani mezzi ubriachi”[46].

E quindi necessario aprire una breve parentesi e, con le parole dello stesso Ricci, definire quanto importante siano stati i suoni e la musica nella creazione dei suoi spettacoli.

Il Barone di Münchausen – Foto: Luigi Perrone.

“Posso dire che la musica (il suono) è stato il supporto, il piedistallo sul quale poggiava tutto il peso della spettacolarità del mio Teatro Immagine. Le colonne sonore che io stesso assemblavo e mixavo, saccheggiavano le diverse espressioni musicali a disposizione […] Ho anche usato nelle mie colonne sonore musica elettronica, ero amico di Frederic Rzewski [47] e del gruppo Musica Elettronica Viva che agli inizi degli anni ‘60 faceva sfaceli a Roma quando io stesso creavo nuovi suoni utilizzando, ad esempio, la rumoristica specifica prodotta da macchine mostruose quali presse, magli e frese registrate presso le acciaierie di Terni; oppure come quando da un samba brasiliano, passandoci notti dietro notti, ho realizzato il suono/rumore nel Re Lear […]. Ma anche come per il Poe nel 1967, cosciente di non inventare nulla tenendo conto della presente musica di Cage e della rumoristica futurista, ho usato pentole, coperchi delle pentole, piatti, posate, acqua, reattori in decollo e atterraggio, spari di armi di un poligono di tiro […] insomma a seconda del bisogno, tutto quello che mi capitava in mano al momento”[48].

In seguito Il Barone di Münchausen viene rappresentato in Germania, dove Ricci grazie al Joyce si era ritagliato una posizione di prestigio tra i registi internazionali contemporanei, trionfando alla Akademie der Künste di Berlino.

Siamo al 1970, e arriva il Re Lear da un’idea di gran teatro di William Shakespeare, spettacolo sicuramente tra i più belli ed interessanti realizzati da Ricci. “Credo sia stato lo spettacolo più bello e più ricco di idee che ho fatto. Ho sempre amato Shakespeare: il migliore. Decidemmo che la vicenda doveva ruotare attorno ad una giostra che veniva costruita a vista”[49].

Il Re Lear esordisce a palazzo Grassi a Venezia nell’ambito dela Biennale, per poi andare a Parigi, Londra, Brighton, Amsterdam e infine a Roma all’Abaco. E’ interessante leggere nel programma di sala come il regista romano descrive il metodo utilizzato nella creazione degli spettacoli.

 

Re Lear, Angela Diana, Lillo Monachesi – Foto: Luigi Perrone


“Seguendo una metodologia ormai sperimentata, spetta a me (solamente per consuetudine) informare i componenti del Gruppo del titolo dello spettacolo che vogliamo realizzare. All’inizio del lavoro, oltre al titolo non sappiamo niente. Non c’è un testo (anche nel caso del Lear il cui testo abbiamo letto assieme solo per ‘ricordarcelo’), non esistono note di regia; non esiste nessuno schema di lavoro. Insomma nulla di nulla al di fuori del titolo, il quale titolo, è il caso di ammetterlo, finirà per agire da spinta alla realizzazione dello spettacolo.

In questo senso si cominciano ad analizzare le proposte di ognuno. Si tratta generalmente di ipotesi di lavoro, spessissimo estranee all’argomento che stiamo trattando. Queste discussioni sono assai brevi perché non riferendosi a niente in particolare ci è facile definire l’oggetto pensato e passare quindi alla ‘progettazione’ dello stesso. Ed è in fase di progettazione, siccome l’oggetto avrà un’ utilizzazione plurima, che cerchiamo di capire come e perché verrà usato. Si passa quindi alla realizzazione. Spesso durante questa fase l’oggetto cambia forma, dimensioni, quando non addirittura sostanza.

L’oggetto (un cavallo, un drago, un castello, etc.) ad ogni modo è lì e bisogna inserirlo nel contesto.

Allora si tratterà di scoprire che tipo di rapporto può stabilire con l’attore (in questo caso l’attore-oggetto) nella azione-visiva per la quale era stato ideato e costruito.

Iniziamo così le ‘prove’ di quell’azione-visiva. L’oggetto mano a mano si svela (ciò dipende ovviamente dal suo peso, forma, dimensione che condizionano la maneggevolezza) e si svela pure il rapporto di cui sopra. Sono lunghe prove di studio alle quali partecipano tutti i componenti del Gruppo”[50].

Lo Spettacolo è in parte commissionato per partecipare al Primo Seminario per il Teatro Sperimentale della Biennale di Venezia, nel 1970.

Cosi Edoardo Fadini ne parla nelle pagine di «Rinascita» nel 1971: “Ricci, […] credo sia più conosciuto all’estero che da noi. Le rassegne di Nancy, Francoforte, Berlino lo hanno ospitato spesso con grande successo di pubblico e critica. Quest’anno finalmente la Biennale di Venezia lo ha invitato alla sua prima rassegna dei Teatri di Ricerca, commissionandogli questo Re Lear che adesso, faticosamente, tenta di girare l’Italia. E dico faticosamente perché soltanto alcune associazioni private si degnano di offrirgli ospitalità. Alla Biennale lo spettacolo fu uno dei migliori della rassegna, in senso assoluto, se non il migliore, tuttavia, durante questa stagione Ricci e i suoi non troveranno, come al solito, altro sbocco all’infuori del circuito ETI, e non “il migliore”, sia chiaro, ma quello di serie B […] Continua cosi a perdurare una situazione assurda che vede il teatro di consumo ai primi posti nella graduatoria dei premi assegnati dallo Stato […] e sistematicamente ignorati proprio quei teatri “sperimentali” che sono sempre stati fino ad oggi un importante polo di sviluppo così in Italia, come all’estero”. [51] Questo è un importante passaggio per comprendere il rapporto di Ricci con l’aspetto più politico legato alla gestione del suo teatro e al legame con le istituzioni. Circostanze, queste, che più tardi lo porteranno, prima ad un incontro sfortunato con il Teatro di Roma, poi alla fondazione, a metà anni ’70, dell’ATISP (Associazione Teatrale Italiana di Sperimentazione).

Nel 1971 viene offerto al G.S.T fondato da M. Ricci (Il Groppo di Sperimentazione Teatrale nato dalle radici dell’Orsoline 15) di filmare una adattamento del Re Lear nell’ambito dei servizi sperimentali della RAI. Ne viene fuori un telefilm che però non soddisfa del tutto Ricci e poco alcuni componenti del gruppo, ma che vincerà il primo premio Salsomaggiore della critica per la migliore regia di un telefilm sperimentale.

Intanto, forte del successo del James Joyce, Ricci avvia la produzione del suo nuovo spettacolo: Moby Dick . E’ il 1972 e lo spettacolo esordisce a Palermo alla III rassegna del Teatro Nuovo per poi andare in scena all’Abaco, a Firenze, ma soprattutto al Festival Internazionale di Edimburgo, una rarissima presenza italiana in quell’ambita rassegna. Cosi commenta Ricci “Il Moby Dick, ho fatto una gran fatica per idearlo, non nego di essermi perduto”[52].

 

Moby Dick, Teatro Abaco – Foto: Luigi Perrone.


Malgrado ciò Moby Dick rappresenta un punto importante nella drammaturgia del regista romano, che consolida il suo rapporto con la letteratura classica senza però avanzare nello stile. Moby Dick oltre al titolo trae dall’omonimo libro di Melville 5 elementi, la balena, la baleniera, Achab, lo stesso Melville e naturalmente il mare.

Lo spettacolo riscuote un discreto successo di critica e di pubblico e chiude un decennio di febbrile attività, che ha visto Ricci passare dal suo primo piccolo spettacolo nella notte di capodanno del 1962, ospite a casa di un famoso critico d’arte, ad essere riconosciuto in Italia e in Europa come uno dei massimi esponenti del teatro di ricerca. Ma Ricci è consapevole di un profondo cambiamento delle circostanze della sua creazione, e comincia a cercare nuove strade espressive.

Nell’Agosto del 1972 al G.S.T. diretto da Mario Ricci viene chiesto di partecipare alla rassegna teatrale organizzata in occasione dei Giochi Olimpici di Monaco di Baviera. Cosi Ricci introduce l’esperienza:

“Nel quadro delle Olimpiadi 1972 svoltesi nella città tedesca nei mesi di Agosto / Settembre, il Comitato Olimpico ha promosso una manifestazione artistico-culturale denominata Spielstrasse da realizzare e rappresentare nello stesso spazio dei giochi sportivi. Per quanto riguardava il teatro sono stati invitati sette gruppi, rappresentanti, nello spirito olimpico, i diversi continenti: Asia America Europa e precisamente: New York Street, Theater Caravan, Eteba di Buenos-Aires, Le Grand Magic Circus di Parigi, il Marionetteatern di Stoccolma, Tenjo Sajiki di Tokio, Mixed Media Company di Berlino ed infine, ultimo ma non ultimo, il Gruppo Sperimentale di Mario Ricci, ad ognuno dei quali è stata assegnata la rappresentazione di una precedente Olimpiade.

Alla prima riunione svoltasi a Monaco il sottoscritto propose la Olimpiade di Berlino del 1936 e con grande mio stupore la proposta venne accettata. Lavorammo così per alcuni mesi su quel tema che poi presentai in una successiva riunione sempre a Monaco di Baviera. Malgrado gli scottanti argomenti toccati e illustrati, (venivano rappresentati Hitler, Göring, Himmler Goebbels, ecc…) tutto sembrava andare per il meglio finchè a Giugno, dunque due mesi prima dell’inizio della manifestazione, il cortesissimo dottor architetto Lofler (lo scrivo come lo pronuncio) venne a Roma per dirmi che il Comitato Olimpico per ragioni di ordine pubblico mi pregava di cambiare soggetto della rappresentazione.

Me lo aspettavo. Ce lo aspettavamo, quindi, dopo esserci fatti pregare a lungo, ripiegammo sulle olimpiadi americane del 1932. Soggetto decisamente meno imbarazzante! Essendo rappresentato, come già detto, all’interno dello spazio dei giochi sportivi, lo spettacolo era ogni giorno visto, o quantomeno sbirciato, da diverse migliaia di persone e siccome aveva una certa sua carica aggressiva, non sono mancati incidenti.” Los Angeles 1932 (questo il titolo dello spettacolo) viene realizzato in parallelo alla tournée europea del Moby Dick e quindi Ricci deve correre ai ripari ed ingaggiare nuove persone per l’occasione.

Il 1972 è un anno intenso per il G.S.T e si chiude con la produzione del Lungo Viaggio di Ulisse che esordisce all’abaco nel dicembre di quell’anno. “Questo Viaggio di Ulisse è stato il tentativo, non proprio riuscito, di far viaggiare insieme l’Ulisse di Omero e quello di Joyce: Mister Bloom. Agli elementi fantastici e mitologici: Circe, Nausica e i Feaci, le sirene, ecc…si sovrapponevano scene di strada e di piazza della vecchia Dublino del grande irlandese. Opera in due atti dei quali il secondo, di soli quindici minuti, era certamente migliore”.

 

Il Lungo Viaggio di Ulisse, Teatro Abaco – Foto: Luigi Perrone.

Anche qui Ricci rivisita un tema letterario, “il filo che lega i diversi titoli prova l’esistenza di una linea, di un itinerario abbastanza personale. Si tratta quasi sempre di un viaggio in compagnie illustri (gli autori dei romanzi, gli eroi) e quando non si tratta di un viaggio è comunque una pausa per prepararsi a quello che verrà e per scoprire ciò che è successo a quello appena concluso”[53].

Nel Giugno del 1973 il regista torna in Germania, il paese che forse più di tutti aveva capito il suo teatro, per presentare una performance pubblica, una piccola e generosa rappresentazione domenicale sul Market Platz di Bonn, Circuito di Sabbia:

“Nella piazza del mercato di Bonn c’è un gran mucchio di sabbia fatta scaricare il mattino. Al suono delle Quattro Stagioni di Vivaldi arrivano otto maschere italiane tra cui Arlecchino, Colombina, Gianduia, Pantalone, con in mano uno strumento musicale in miniatura.

Lì, come tanti bambini in spiaggia, costruiscono un grande circuito e con delle biglie colorate iniziano la sfida sulla sabbia, invitando i presenti, che intanto avevano accerchiato il circuito, a prendere parte al gioco. Il pubblico dapprima intimidito poco a poco si lascia andare fino a prendere in mano le regole del gioco escludendo le maschere italiane che, ripresi gli strumenti, riprendono a suonare, allontanandosi dall’azione. Un gioioso pomeriggio. Un bel ricordo davvero!”.

“Intorno al ‘73 inizio a sentire che qualcosa non funzionava più nel mio modo di fare teatro. La mia creatività stava andando in crisi. Era cambiato il contesto storico-politico, ed io sono stato sempre molto sensibile a questo argomento. È come se avessi intuito che la strada presa dal paese non mi consentisse più di fare il mio teatro pieno di ironia, di gioco, di magia. L’ho capito meglio dopo qualche anno e l’ho denunciato, l’ho detto chiaramente. Comunque in quel periodo ho capito che il mio Teatro Immagine era finito. Bisognava prendere in mano un teatro di forti contenuti e pensai che era giunto il momento di smettere di giocare”[54].

Ma prima di questa svolta, Ricci si concede un’ultima digressione sul suo Teatro Immagine: “Le Tre Melarance. Uno spettacolo divertente, ricco, ma al tempo stesso già fuori dal Teatro Immagine. Non aveva nulla a che vedere con l’opera di Carlo Gozzi e c’erano ancora filmati ed alberi di carta che formavano un piccolo eden da cui spuntavano una grossa mela dipinta e una testa di serpente. Il filmato mostrava una casalinga molto comune che tornava a casa. Un mio testo descriveva le sue azioni e le sue riflessioni. Poi il film finiva e da dietro l’albero apparivano i corpi nudi di Adamo ed Eva”[55].

 

Le Tre Melarance, Teatro Abaco, prove – Foto Luigi Perrone.

Le Tre Melarance, osserva Ricci, chiudono il ciclo, straordinario e irripetibile del Teatro-immagine e terminava con una scena assai ‘beffarda’, come scrisse Blandi sulla Stampa. Da una grande slot-machine per il vincitore invece del danaro usciva una bella ragazza e quando tutte erano state vinte, tutti insieme, in fila, sorridenti e sì, beffardi, tutti in posa per una inattesa foto ricordo.

Del tutto inconsapevolmente quella fu davvero l’ultima foto ricordo perché quello fu anche l’ultimo mio spettacolo realizzato con i miei magnifici compagni di strada. Ragazzi incomparabili. Poeti che avevano scelto la via più difficile per realizzare la loro ambizione di artisti e forse conoscere una parte di se stessi.

Dopo lunghi anni di duro lavoro insieme, ma anche di grande divertimento, il Gruppo s’è sciolto. Cioè io ne ho chiesto lo scioglimento. Se è vero che Le Tre Melarance è stato uno spettacolo di grande successo (basta rileggere oggi le critiche di allora) è anche vero che per me è stato il segnale dell’inizio della fine.

Se è vero che sulla scia di quel successo e dei precedenti, avrei, avremmo potuto continuare chissà per quanti anni, riproducendo ogni anno una copia di quello stesso spettacolo riveduta e corretta, come fa d’altronde la stragrande maggioranza dei teatranti, è anche vero che per me non fu possibile.

Vedendo e rivedendo lo spettacolo poco a poco finii per convincermi che quella era l’ultima stazione d’un lungo, straordinario viaggio. Nei meccanismi di svolgimento della rappresentazione c’era una sorta di perfezione o, se si preferisce, un inizio di accademismo che mi convinse a non andare oltre, perché continuare avrebbe significato ridurre una grande, originale invenzione ad un cliché. Ad un pacco-confezione pronto all’uso. Atto d’orgoglio ma anche di grande umiltà perché aver capito, ed ammettere che forse era finita la stagione dell’invenzione pura che aveva contrassegnato ogni mio lavoro sino ad allora, non è stato proprio uno scherzo.

Non era più tempo di “teatro gioco”. Per questo (dopo Le Tre Melarance) ho fatto Barbablè, perché fui molto colpito dalla vicenda drammatica del Circeo[56](che deve aver toccato le mie origini proletarie) e dal fatto che le BR (Brigate Rosse) avessero iniziato a uccidere. Siamo nel ‘75 e quel gesto rappresenta un atto politico forte, anche se credo che fosse già troppo tardi.”

A ciò devo aggiungere per onestà professionale, se così posso dire, il mio bisogno di cambiamento. L’incontenibile bisogno di gettarsi in un’altra avventura. Ma bisognava cambiare anche perché intanto il mondo stava cambiando attorno a noi. Quando con barbaro entusiasmo qualcuno proclamò di portare ‘l’immaginazione al potere’, io non fui certo preso alla sprovvista.

Da anni ormai praticavo la stessa ‘dottrina’. Non si chiamava forse ‘teatro-immagine’ il mio teatro? Non era forse da anni ch’io lavoravo in alternativa al teatro di testo per un teatro che favorisse innanzi tutto l’immaginazione; cioè un teatro in grado di sollecitare le capacità immaginifiche d’ognuno affinché ognuno potesse liberamente, e per una sera almeno, creare il suo spettacolo? Questo andavo dicendo e realizzando da anni ma ora, in quel 1974, quegli anni erano finiti. Ai barbari entusiasmi si sarebbe imposta la P38. L’aria s’era fatta pesante. Finita la stagione dell’immaginazione! Finita l’illusione d’un ‘potere gitano’ bisognava tornare a parlare”.

CONTINUA……..

LISTA COLLABORATORI MARIO RICCI STORICI 1963-1974
Gabriella Toppani
Dal 1963-64 (fondazione del teatro Orsoline 15)
Claudio Previtera
Angela Diana
Tonino Campanelli
Sabina De Guida
Deborah Hayes
Sarah Di Nepi
Dal 1965 Luigi Perrone
Dal 1966-67 Lillo Monachesi
Dal 1968-69 Carlo Montesi e Mario Romano

ALTRI COLLABORATORI CHE SI SONO AVVICENDATI IN ALTRI MOMENTI E IN VARI RUOLI

Franco Cataldi – attore – ILLUMINAZIONE
Carla Cacianti – scenografa – LOS ANGELES ’32
Stefano Cianca attore LOS ANGELES’ 32
Michelle De Matteis attore RE LEAR e MOBY DICK
Paolo Falace attore LOS ANGELES ’32
Marilù Gleyeses attore ILLUMINAZIONE
Mariella La Terza attore ULISSE / LE TRE MELARANCE
Vivian Lombroso attore  ILLUMINAZIONE
Ugo Margio attore  LOS ANGELES 32
Dario Mazzoli attore – voce narrante in vari spettacoli
Caterina Merlino attore LOS ANGELE ’32
Paolo Montesi attore LOS ANGELES ’32
Marco Mozzano attore LOS ANGELES ’32
Carla Renzi attore RE LEAR  LOS ANGELES ’32
Roberto (Edile) Ricci attore VARIETA’
Marco Romizi  attore ILLUMINAZIONE
Ghete Strano organizzatore e partecipazione all’azione LOS ANGELES ’32, CIRCUITO DI SABBIA
Valter Silvestrini attore LOS ANGELES ’32
Emanuele Vacchetto attore  RE LEAR
Marisa Volonnino attore LOS ANGELES ’32

Si RINGRAZIANO:
Pietro Galletti, Riccardo Orsini, Luigi Perrone e John Ross per aver gentilmente messo a disposizioni le foto degli spettacoli, del lavoro e dei viaggi di Mario Ricci ed il Gruppo Orsoline 15. Luca Franco per la lunga intervista filmata.

 


[1] Per una bibliografia recente ed esaustiva su Mario Ricci si veda anche  Mario Ricci. Bibliografia a cura di A. Silvestrini in «Sciami» – nuovoteatromadeinitaly.sciami.com 2016.

[2] Per un’analisi puntuale della figura e dell’arte di Gordon Craig si vedano gli studi più recenti di L. Mango, L’officina teorica di Edward Gordon Craig, Titivillus, Corazzano (PI), 2015 e P. Degli Esposti, La Über-Marionette e le sue ombre. L’altro attore di Edward Gordon Craig, Ed. di Pagina, Bari, 2018.

[3] Cfr. D. Visone, La nascita del Nuovo Teatro in Italia, Titivillus, Corazzano (PI) 2010, pp. 35-38.

[4] Nato nel 1933, Pasquale Santoro (Ninì), pittore e scultore, è uno dei protagonisti dell’astrattismo italiano. Nel 1961 insieme a Nato Frascà è stato uno dei fondatori del Gruppo 1 sotto l’egida di Giulio Carlo Argan.

[5] Jean Claude Vignes(1924-96), pittore, scultore e scenografo teatrale. (www.jcvignes.com/)

[6] Attore, regista, scrittore e insegnante d’arte, Michael Meschke (n. 1931) ha fondato il Teatro di Marionette di Stoccolma nel 1958 di cui è stato direttore fino al 1998 (http://www.michaelmeschke.com)

[7] M. Ricci, documento inedito, Archivio privato Mario Ricci. Le citazioni a seguire, prive di altro riferimento, provengono da questo stesso testo.

[8] Harry Kramer (1925-1997) è uno scultore, coreografo, danzatore e insegnante d’arte. Conosciuto per le sue sculture cinetiche agli inizi degli anni ‘60.

[9] M. Ricci, A partire da Zero. (Autobiografia), a cura di G. Celant in «La scrittura Scenica», anno 1, n. 3, Bulzoni, Roma, 1971, p. 71. Anche in F. Quadri, L’avanguardia teatrale italiana (Materiali 1960-1967) I, Einaudi, Torino, 1977, p. 212.

[10] Nello Ponente (1925-1981) è stato un critico e uno storico dell’arte autore di numerosi saggi e monografie sull’arte contemporanea.

[11] Fortunato Frascà (1931-2006) si definiva un ricercatore artistico multimediale. La sua attività spaziava dalla pittura, alla scultura, alla scenografia fino alla didattica.

[12] Remo Remotti (1924-2015) noto come cantautore italiano, ha avuto un percorso artistico che comprendeva anche la recitazione, la poesia e le arti visive.

[13] Oskar Schlemmer (1888-1943), pittore e scultore tedesco fu tra i membri del Bauhaus fin dalla sua fondazione dirigendo la sezione di cultura e teatro. Realizzò impianti scenici con originali invenzioni meccaniche di sapore surrealista.

[14] P. Di Marca, Il Lungo avventuroso ‘Romanzo’ Teatrale di Mario Ricci, in «retididedalus.it», gennaio 2011, http://www.retididedalus.it/Archivi/2011/gennaio/TEATRICA/3_addii.pdf2010

[15] D. Visone, La nascita del Nuovo Teatro in Italia, cit., p. 125.

[16] Gastone Novelli (1925-1968) esponente della pittura informale attivo in diversi settori dell’avanguardia artistica italiana degli anni sessanta.

[17] Paese Sera – Dicembre 1964

[18] A. Mango, Teatro sperimentale e di avanguardia, in “Teatro contemporaneo” (a cura di M. Verdone) vol 1, Lucarini, Roma 1982.

[19] M. Ricci cit. in D. Visone, op. cit., p. 125.

[20] D. Visone, op. cit., p. 126.

[21] Gianni Novak (1933-2002) artista eclettico, la sua opera spaziava dalla pittura alla scrittura, dalla filosofia al teatro, dall’arte figurativa a quella astratta.

[22] «Gruppo 63» è il nome del movimento di neoavanguardia letteraria costituitosi a Palermo nel 1963.

[23] M. Fagiolo,s.t., in «Avanti», 4-6-1965.

[24] Achille Perilli, pittore italiano nato nel 1927 è stato cofondatore insieme, tra gli altri, a Giulio Turcato, dell’avanguardia artistica denominata Gruppo Forma 1. Nato nel 1941, Carlo Vitali è un pittore fiorentino di formazione europea. Ha allestito e partecipato a mostre in Italia e all’estero. È catalogato presso il Kunsthistrische Institut di Firenze.

[25] La citazione è tratta da un articolo di Ennio Flaiano pubblicato su «L’Europeo» nell’aprile del 1965 (ritaglio stampa, archivio privato del regista).

[26] M. Ricci, Ieri: testimonianze e ricordi, in AA. VV., Memorie delle Cantine. Teatro di ricerca a Roma negli anni ‘60 e ‘70, a cura di Silvia Carandini, in «Biblioteca Teatrale» n. 101-103, gennaio-settembre 2012. Roma, Bulzoni, 2012, 170.

[27] Cfr. D. Visone, op. cit., pp. 67-68.

[28] Germano Celant, A partire da Zero. Autobiografia di Mario Ricci, cit., p. 78.

[29] D. Visone, op. cit., p. 130.

[30] Spettacolo tradizionale cecoslovacco. Cfr. https://www.youtube.com/watch?v=l0K-XzzjxDQ

[31] M. Ricci, cit. in L. Franco, E. Zaccagnini, La Luce Solida: sul teatro di Mario Ricci, Un mondo a parte editore, Roma, 2010.

[32] G. Bartolucci, Gulliver delle Orsoline, in «Sipario» n. 248, 1966.

[33] L. Franco, E. Zaccagnini, La Luce Solida: sul teatro di Mario Ricci.

[34] F. Cordelli, Addio a Mario Ricci. Fu il regista del teatro-immagine, in «Corriere della Sera», 28 Novembre 2010.

[35] M. Ricci, cit. in L. Franco, E. Zaccagnini, La Luce Solida, il Teatro di Mario Ricci.

[36] Vice, Testi di Balestrini e Ricci alla Ringhiera in« Avanti», 28/10/1967.

[37] Cfr. S. Sinisi, Dalla Parte dell’occhio, Kappa, Salerno, 1983.

[38] M. Ricci, Teatro-rito e Teatro-gioco, in F. Quadri, L’avanguardia teatrale in Italia. Materiali (1960-1976), cit. p. 208.

[39] M. Ricci, cit. in L. Franco, E. Zaccagnini, op. cit., p. 77.

[40] Leo De Bernardinis (1940-2008) e Perla Peragallo (1943-2007) sono stati due attori, registi e drammaturghi di punta del teatro d’avanguardia italiano degli anni sessanta e settanta. Sullo spettacolo La Faticosa Messinscena, non messinscena dell’Amleto di William Shakespeare si rimanda a: http://www.nuovoteatromadeinitaly.com/la-faticosa-messinscena-dellamleto-di-william-shakespeare-1967/.

[41] Umberto Bignardi (n. 1935) è uno scenografo e pittore bolognese. Nella metà degli anni sessanta comincia a interessarsi alla trasposizione grafico-pittorica delle cronofotografie di Muybridge e dei fotofinish. Nel 2016 ha esposto nelle retrospettive Roma Pop City anni ’60 al Macro di Roma e Italia Pop a Parma.

[42] C. Grazioli, Sulla frantumazione visiva e sonora: Illuminazione di Mario Ricci e Umberto Bignardi, 2016 in https://sciami.com/scm-content/uploads/sites/7/2017/05/Mario-Ricci-Illuminazione-1967-Cristina-Grazioli-Presentazione-2015.pdf.

[43] M. Ricci cit. in, L. Franco e E. Zaccagnini, La Luce Solida, il Teatro di Mario Ricci.

[44] La citazione è tratta da un articolo di Guido Boursier, Il Linguaggio degli Oggetti, pubblicato «Sipario» nel gennaio 1969 (ritaglio stampa, archivio privato del regista).

[45] M. Ricci in L. Franco E. Zaccagnini, La Luce Solida. Il Teatro di Mario Ricci.

[46] Ibidem.

[47] Frederic Rzewski (n. 1938) è un è un compositore e pianista statunitense.

[48] M. Ricci, Ieri: ricordi e testimonianze in AA. VV., Memoria dalle Cantine, cit., p. 175.

[49] M. Ricci in L. Franco E. Zaccagnini, La Luce Solida. Il Teatro di Mario Ricci.

[50] M. Ricci, Re Lear da un’idea di gran teatro di William Shakespeare, programma di sala del teatro di Palazzo Grassi, Venezia, 17 maggio 1970, p. 54.

[51] E. Fadini, Re Lear di M. Ricci, il gioco e i suoi risvolti, in «Rinascita» N.1, gennaio 1971.

[52] M. Ricci in L. Franco E. Zaccagnini, La Luce Solida. Il Teatro di Mario Ricci.

[53] La citazione, di Italo Moscati,è tratta dal Programma di Sala per il Lungo Viaggio di Ulisse conservato nell’archivio privato del regista.

[54] M. Ricci in L. Franco e E. Zaccagnini, La Luce Solida, il Teatro di Mario Ricci.

[55] Ibidem.

[56] Fatto di cronaca nera avvenuto a San Felice Circeo tra il 29 e il 30 settembre 1975.